martedì 11 giugno 2013

L’ASCENSIONE DEL SIGNORE

L’ASCENSIONE DEL SIGNORE
di Fotios monaco


Sul Monte degli ulivi a Gerusalemme, nel luogo chiamato Imbobon (altura), si trova un piccolo edificio circolare custodito da musulmani, al suo interno, nel più totale disadorno, è racchiusa la roccia da cui il Salvatore lasciò la terra per ascendere al cielo sotto gli occhi stupiti degli apostoli. L’odierna esegesi biblica di matrice occidentale ritiene che il racconto dell’Ascensione sia direttamente collegato a quello della Resurrezione, una prosecuzione narrativa che ha sdoppiato il racconto dell’evento pasquale, ponendo una fine temporale alla presenza meta-storica del Risorto sulla terra. Nulla di diverso, sostanzialmente, da quanto la secolare Tradizione della Chiesa trasmette ai suoi fedeli. Infatti, se la memoria liturgica di questo evento è oggi posta 40 giorni dopo la Resurrezione e dieci prima della Pentecoste, in origine era invece celebrata nello stesso giorno della Resurrezione, in seguito insieme alla festa di Pentecoste. La prima testimonianza di questa festa si trova in Eusebio dove è chiamata “giorno solenne” e in san Gregorio di Nissa che le dà il nome di Ανάληψις, divenuto poi comune a tutta la Chiesa. Solo tra il V ed il VI secolo si stabilisce definitivamente come celebrazione autonoma[1].
La liturgia dell’Ascensione, d’altronde, si compone intorno al racconto di san Luca[2] e degli Atti degli Apostoli[3]. San Paolo da parte sua riferisce l’avvenimento: Colui che discese è lo stesso che pure ascese al di sopra di tutti i cieli[4], mentre il salmo 23 sottolinea la sua ampiezza: Sollevate, porte, i vostri frontali, alzatevi porte antiche ed entri il Re della gloria; così nella raffigurazione iconografica della festa le due “porte” indicano i due poli metafisici della terra e i due estremi della corsa della salvezza. Dio discende fino alla porta dell’inferno, la spezza e da lì si eleva fino alla porta del cielo: “Il Signore con la sua discesa ha annientato l’avversario e con la sua ascensione ha esaltato l’uomo”. Il pessimismo veterotestamentario di Giobbe constatava che chi scende agli inferi più non risale[5]. Ma già il cantico di Anna profetizzava: Il Signore fa scendere agli inferi e risalire[6]. La festa annuncia la vittoria sulla morte e sull’inferno e la Tradizione sottolinea la vastità del suo compimento finale. Così san Giovanni Crisostomo, in una sintesi stupenda, vi mostra il termine della salvezza: l’umanità di tutti nell’umanità del Cristo è introdotta definitivamente nell’esistenza celeste, è la nostra eternizzazione e la nostra immortalità realizzate senza ritorno possibile. Quindi la nostra patria è nei cieli[7]. Più ancora, il Padre con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù[8]; per anticipazione, in Cristo, san Paolo contempla già il Regno compiuto.
Gli apostoli, dice san Luca, dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande gioia; e la liturgia della festa è un inno di gioia. La salvezza è realizzata, ma l’opera del Cristo, compiuta oggettivamente, deve passare per una appropriazione soggettiva in ogni uomo. Alzate le mani, li benedisse. Ora, mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo. Questa benedizione è già l’inizio della Pentecoste, l’invio del Santo Spirito, si può dire che rappresenti l’epiclesi pentecostale, il momento in cui io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre[9]. L’epiclesi è l’invocazione indirizzata al Padre affinché mandi lo Spirito, ed è ciò che canta incessantemente la liturgia della festa: “Tu ti sei innalzato nella gloria, Cristo nostro Dio, dopo aver rallegrato i tuoi discepoli con l’annuncio del Santo Spirito, ed essi furono confermati dalla tua benedizione”. “Il Signore è salito… per restituire ad Adamo l’immagine che aveva perduta e inviare a noi lo Spirito Paraclito, al fine di santificare le nostre anime…”. Si vede bene la sorgente profonda della gioia apostolica che esplode malgrado la dipartita, perché la promessa resta: Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo[10]. L’antinomia per la ragione, l’evidenza per lo spirito, sono sottolineate nel Kontàkion della festa: Avendo compiuto l’economia divina che ci riguardava e avendo unito gli abitanti della terra con quelli del cielo, tu ti sei elevato al cielo nella gloria per dimorarvi eternamente e dici a quelli che ti amano: Io sono con voi e nessuno prevarrà contro di voi. Dopo l’Ascensione la presenza del Cristo cambia modalità, s’interiorizza. Egli non è più davanti ai suoi discepoli, di fronte a loro, ma dentro di loro: egli è presente in ogni manifestazione del Santo Spirito come è presente nell’Eucaristia[11]. A noi il saperlo riconoscere, nell’attesa e alla sua Parusia, quando questo Gesù che è stato assunto verso il cielo, tornerà un giorno allo stesso modo con cui l’avete visto andare in cielo.
Vieni, o Signore Gesù![12]
[1] Cfr. A. TRADIGO, Icone e Santi d’Oriente, Milano 2004, p. 150.
[2] Luca 24, 50-53.
[3] Atti 1, 9-11.
[4] Efesini 4, 10.
[5] Giobbe 7, 9.
[6] III libro dei Re 2, 6.
[7] Filippesi 3,20.
[8] Efesini 2, 6.
[9] Giovanni 14, 16.
[10] Matteo 28, 20.
[11] Cfr. P. N. EVDOKIMOV, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, Cinisello Balsamo 1990, 303-305.
[12] Apocalisse 22, 20.